C’è qualcosa nella vita che la trascende, che ne schiude un significato ulteriore. La vitalità con le sue altalene del benessere, con le salite e le cadute repentine, ci dice di un “funzionamento” che giunge comunque al decadimento, alla fine.
Ciò che resta è la brama di presenza, di vicinanza, di comprensione, di amore, che tutti ci coinvolge, nessuno escluso, compreso il tragico nichilista alle prese con la maschera della disillusione
innanzi al mistero che ci circonda.
L’atto religioso, dunque, non ha nulla di confessionale, di chiuso o superbo.La religione come apertura infinita al contributo di ciascuno, come reazione pratica al dolore e alla morte intesa
come ingiustizia (è questo il sentimento religioso tradotto da Capitini) riguarda lo specifico umano, è prova – come lo è la stessa esistenza della “persona buona” – di una realtà liberata che attende
di compiersi in una speranza attiva.
Gli storpi, gli umiliati, i rinchiusi, i deboli, i colpevoli, i reietti, gli esclusi, gli incapaci, gli improduttivi, i diversi, non sono esclusi dalla salvezza: Capitini mette alla berlina tanto l’idea antica di una salvezza religiosa per pochi, per gli eletti, sia l’idea moderna secondo la quale solo chi produce, solo chi è vitale, ha diritto al meglio della vita, ha diritto al riconoscimento del proprio contributo nel mondo.
Ogni chiusura, ogni esclusione, significa reiterare la realtà così come è, significa perpetrare violenza e sopruso, accettare limiti e destini già programmati sin dalla nascita. Tutto questo, in vero, contraddice l’uomo, lo dimezza negandogli l’infinita possibilità di sviluppo che gli è propria. La salvezza, per ciò, è corale (o non è), è compito nostro lottare per far discernere il contributo di tutti nell’affermazione del bene che affratella.
Il “mondo nuovo”, dunque, non è un’utopia, è più propriamente un modo nuovo, è la coscienza intima e la prassi politica diretta ad escludere ogni esclusione, a tramutare la società in società plurale, campo aperto del contributo e del potere di tutti.
L’altro, il tu, in tale contesto, non è semplicemente uno specchio di inganni che ci aiuta a identificare il “nemico”, non è minaccia. Il tu è il “simile” anche nell’errore e, soprattutto, nell’occasione di riscatto: è la Pietà che riconosce il peso della fortuna, del caso, degli incontri, delle epifanie del male, delle diseguaglianze sociali, per comprendere come “egli è me”, come l’unità infinita e l’eterna
vicinanza siano realtà esistenziali e storiche che realizzano l’uomo, il suo passaggio.
(da "Contro la morte. Sulla filosofia di Aldo Capitini, Città del Sole editore, 2024)