Quando se ne va un campione il pianto, lo sconforto fanno breccia nella nostra interiorità.
Ma quando se ne va il più grande di tutti i tempi allora tutto questo non basta. Con la morte di Diego Armando Maradona non basta esprimere il dolore, il rammarico, perché questi sono incommensurabili.
El Pibe de Oro è stato un mito, un genio, avvolto da un’aura di sacralità e contraddizioni, in una vita che esulava dagli schemi. Diego perduto e ritrovato, Diego incantatore di popolo, soggetto di antologie, beniamino di una città, di un Paese, del mondo, Diego scolpito nell’anima e nei cuori dei tifosi e non.
Chi non si è innamorato di Maradona vedendolo danzare tra gli avversari, palleggiando a ritmo di Live is life prima della finale di Coppa Uefa del 1989, chi non è rimasto stupito dai suoi dribbling ubriacanti, estasiato dalle sue finte che offuscavano le difese.
Diego ha fatto innamorare generazioni. Anche la mia, sì, che non ha potuto godere allo stadio delle sue prodezze, ne ha coltivato il culto, di un fuoriclasse assoluto, senza eguali, l’unico che potesse siglare il gol del secolo, l’unico che potesse decidere una partita con un colpo di scena, con una mano, senza che l’arbitro se ne accorgesse.
Si dice che il calcio sia una religione; allora Diego ne è il Dio, che con la sua mano, la stessa del Mondiale 1986, orchestra una sinfonia.
Diego, Beethoven del pallone, osannato dalla sua Napoli, Diego popolare, semplice, ci lascia.
L’icona, l’essenza della passione, del vivere il calcio, divengono eterni.
Non ci resta che ringraziarlo. Grazie Diego, grazie di tutto.