“C’è qualcosa nella vita che la trascende, che ne schiude un significato ulteriore.” La vitalità con le sue altalene del benessere, con le salite e le cadute repentine, ci dice di un “funzionamento” che giunge comunque al decadimento, alla fine.
“Ciò che resta è la brama di presenza, di vicinanza, di comprensione, di amore, che tutti ci coinvolge, nessuno escluso, compreso il tragico nichilista alle prese con la maschera della disillusione innanzi al mistero che ci circonda.”
L’ atto religioso, dunque, non ha nulla di confessionale, di chiuso o superbo. La religione come apertura infinita al contributo di ciascuno, come reazione pratica al dolore e alla morte intesa come ingiustizia (è questo il sentimento religioso tradotto da Aldo Capitini) riguarda lo specifico umano, è prova – come lo è la stessa esistenza della “persona buona” – di una realtà liberata che attende di compiersi in una speranza attiva.
“Gli storpi, gli umiliati, i rinchiusi, i deboli, i colpevoli, i reietti, gli esclusi, gli incapaci, gli improduttivi, i diversi, non sono esclusi dalla salvezza”. Capitini mette alla berlina tanto l’idea antica di una salvezza religiosa per pochi, per gli eletti, sia l’idea moderna secondo la quale solo chi produce, solo chi è vitale, ha diritto al meglio della vita, ha diritto al riconoscimento del proprio contributo nel mondo.
(Dal saggio omonimo in pubblicazione per Città del Sole edizioni)