Non è il primo, il senatore Nicola Morra, ad occuparsi dello scrittore, saggista e giornalista Corrado Alvaro, senza conoscere, almeno profondamente, la sua vera natura di uomo, di scrittore e di letterato del ‘900. C’è gente che ne parla per sentito dire o per polemica gratuita, o per aver letto, forse frettolosamente, solo qualche opera dello scrittore; come il grande giornalista e scrittore Bruno Vespa, grande soprattutto perché in grado di produrre un’opera l’anno, e per usare (gratis) mezzi pubblici, come le varie trasmissioni della RAI, per pubblicizzarli.
Non è molto raro, in Italia, che si parli e si accusi per sentito dire. Non si può definire timido o rassegnato chi, a soli 27 anni firma assieme ad altri 52 illustri intellettuali coraggiosi, tra cui Umberto Zanotti Bianco, Eugenio Montale, Piero Calamandrei, e lo stesso Giovanni Amendola, il manifesto antifascista che Benedetto Croce scrisse in risposta a quello pro fascismo di Giovanni Gentile; chi, nel Mondo dello stesso Amendola, giornale apertamente antifascista, continuò a scrivere contro il nascente regime totalitario: “Nel 1922 ero al Mondo il giornale di opposizione al fascismo. Vi scrissi volontariamente cose che mi costarono poi molti guai… Gli attacchi che mi facevano i giornali mi impedivano di vivere e riparai a Berlino…Ero antifascista per temperamento, per cultura, per indole, per inclinazione, per natura.” A causa di questa persecuzione, per la quale i giornali e le riviste rifiutavano ogni suo scritto, Alvaro precipitò addirittura nell’indigenza e nella disperazione morale ed economica. Minacciato parecchie volte dagli squadristi, fu aggredito fisicamente dagli stessi il 16 dicembre 1925, mentre passeggiava con l’amico filosofo e critico Adriano Tilgher, pure lui malmenato. Riparò a Berlino dove l’aveva invitato Luigi Pirandello ed altri intellettuali rifugiati nella Repubblica di Weimar. Qui, riuscì a trovare lavoro in vari giornali e riviste, anche francesi, e a completare Gente in Aspromonte, La signora dell’isola e altri scritti e a pubblicare L’amata alla finestra.
Ma anche leggendo le opere di Alvaro si riesce a capire il suo carattere non rinunciatario o rassegnato: Antonello Argirò, il protagonista del suo racconto più conosciuto ed apprezzato, Gente in Aspromonte, reagisce in maniera anche violenta alle angherie perpetrate dai padroni contro la sua famiglia che, per distruggerla economicamente, bruciano la stalla e la mula che ci sta dentro, unica fonte di entrata della famiglia. Antonello dà fuoco ai boschi e alle mandrie dei padroni. Mario La Cava commenta così l’episodio: Nel racconto i fatti si svolgono con alto senso di drammaticità. Una burla atroce è al centro dell’azione. I nobili fannulloni mettono fuoco alla capanna in cui è custodita la mula del povero Argirò, unica risorsa per mantenere il figlio agli studi. Un altro suo figlio si sacrificava lavorando lontano nell’impegno di aiutare il padre a mantenere il figlio studente. Distrutte le loro speranze, il figlio che lavorava appicca il fuoco ai boschi dei nobili, nel vano tentativo di liberare il popolo oppresso. Non riesce a nulla, riesce soltanto a gridare alto il suo bisogno di giustizia di fronte al mondo.
Questo non è certo un atteggiamento di cultura della rassegnazione.
Al suo ritorno dalla Germania, nel 1931, Alvaro riuscì a pubblicare alcune sue opere, e a vincere il Premio La Stampa, poiché il regime allentò momentaneamente l’atteggiamento persecutorio nei suoi confronti; fu una specie di tregua guardinga, di cui Alvaro non ne approfittò, fino al 1938, quando pubblicò, presso l’editore Bompiani, L’uomo è forte. Il romanzo fu una chiara accusa contro tutti i totalitarismi, compreso il fascismo, sebbene la trama di esso si svolgesse in Russia, infatti il titolo originale era Paura sul mondo. Ciò avveniva sette anni prima di La fattoria degli animali e undici prima di 1984 di George Orwell. Con questo libro Alvaro dimostra non solo di non essere un rassegnato, ma addirittura uno sfidante della dittatura.
Nel 1945 Alvaro pubblica il pamphlet L’Italia rinuncia? Scritto l’anno prima. Sono circa cento pagine di riflessioni sulla situazione dell’Italia, poco prima della fine della guerra, (Un appassionato pamphlet che denuncia l’eventualità di una restaurazione da parte delle forze reazionarie, ed il pericolo che gli italiani rimuovano la coscienza della tragedia vissuta, abdichino ad un radicale rinnovamento della società – A. M. Morace) Il libello contiene anche riflessioni profetiche sul futuro sviluppo e sul pericolo che la nazione possa arrivare ad alti livelli di corruzione e malaffare scambiando la conquistata libertà per libertinaggio sociale. Con questo messaggio al popolo, Alvaro compie un gesto vero di amor patrio e di preoccupazione per il pericolo che intravede, conoscendo l’indole italiana di aggrapparsi al più forte. Alvaro compie un atto di servizio morale e sociale che nessuno altro scrittore o intellettuale abbia osato compiere in quel tragico momento storico. Altro che cultura della rassegnazione! Alvaro intende invece spronare il popolo a continuare la lotta per il riscatto. Certamente non si può dire che egli non abbia previsto molto di quello che successivamente è realmente accaduto, non si può dire che Alvaro sia stato affetto da quella malattia che è stata denominata “cultura della rassegnazione”, si può dire invece che Alvaro sia stato un intellettuale che ha ben compresa l’epoca in cui viveva e che la sua preoccupazione sia stata quella che gli italiani non cadessero nella rassegnazione, rinunciando al completamento della conquista della libertà. “L’Italia rinunzia?” che non ha perso la sua drammatica attualità dovrebbe essere ristampato e riletto, anche nelle scuole, perché è un’opera di alto livello morale e pedagogico. Quanto all’osservazione del senatore Nicola Morra, diciamo che non è stata una cosa da poco rifiutare di essere nominato Accademico d’Italia in cambio della tessera di partito. E che questa non è rassegnazione.