Giovedì, 19 Settembre 2024

                                                                                                                                                                             

 

                                                                                                                                                                                                          

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LO STRANO CASO DEL DR.LORENZO CALOGERO E DEL SIGNOR NIENTE E NESSUNO

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«I fatti della vita sempre diventano più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive – cioè quando da “atti relativi” diventano per così dire “atti assoluti”. Come diceva quel poliziotto di Graham Greene: “Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali possono pubblicare”. Anche noi, tutto sommato».

Atti relativi alla morte …

Com’è accaduto nel ’75 per “La scomparsa di Ettore Majorana” («La scienza, come la poesia, si sa che sta a un passo dalla follia»!), nel racconto “giallo dal vero” (come fu definito da Arrigo Benedetti, nel marzo di quattro anni prima), il caso misterioso di Raymond Roussel (“Atti relativi alla morte di…”), la ricerca della “verità” da parte di Leonardo Sciascia, come la sua negazione, ne costituiscono la “trama” essenziale, senza appagare la naturale curiosità dei "rousselatres", amanti di quei suoi giochi enigmistici, a cominciare dal banale cambio di consonante.   

Come ho scritto …

Nel saggio postumo “Comment j'ai écrit certains de mes livres” (1935), Raymond Roussel offriva delle spiegazioni al meccanismo adottato per progettare alcune sue opere (“Impressions d'Afrique”, 1909; “Locus Solus”, 1914; “L'Étoile au Front”, 1925; “La Poussière de Soleils”, 1926), basate innanzitutto sullo sdoppiamento semantico del linguaggio, sull'omofonia delle frasi e relativa distorsione fonetica.

Metagrammi o solo “cambio di lettera”?

“… Sceglievo due parole quasi simili (sul tipo dei metagrammi). Per esempio billard [biliardo] e pillard [predone]. Poi vi aggiungevo parole simili ma prese in due sensi differenti, e ottenevo così due frasi quasi identiche. Per quanto riguarda pillard e billard le due frasi che ottenni furono queste: Les lettres du blanc sur les bandes du vieux billard. Les lettres du blanc sur les bandes du vieux pillard. Nella prima, lettres [lettere] era preso nel senso di «segni tipografici», blanc [bianco] nel senso di «gesso» e bandes [bande] nel senso di «sponde»: «Le lettere tracciate col gesso bianco sulle sponde del vecchio biliardo». Nella seconda, lettres era preso nel senso di «missive», blanc nel senso di «uomo bianco» e bandes nel senso di «orde guerriere»: «Le missive inviate dall'uomo bianco a proposito delle orde del vecchio predone». Trovate le due frasi, si trattava di scrivere un racconto che potesse cominciare con la prima e finire con la seconda…”.

Commentava Foucault: “Evidente cenno a una narratività che succede letteralmente solo dopo, in quanto indirizzata dai doppi sensi, dalle angolature di una lettura attenta alle omofonie e alle differenze che esse creano: … sistema ortogonale di ripetizioni […] figure che si formano nel linguaggio prima del discorso e delle parole”.

Un'amplificazione del processo precedente consiste nel trovare "nuovi termini relativi alla voce biliardo, per prenderli sempre in un senso diverso da quello apparso per primo”, ottenendo “ogni volta una creazione in più”. La procedura può ulteriormente ripetersi in una più accentuata complessità, sino a evolversi nel “prendere qualsiasi frase, dalla quale ho tratto delle immagini scomponendola, un  po' come se si trattasse di estrarre dei disegni rebus”.

Più allo scopo di frammentare la frase, o maggiormente di indugiare a estrapolare oggetti rilevanti? Quali futili indizi d’un’indagine tesa a non risolvere il “giallo” della biografia d’un poeta, come della fine di Lorenzo Calogero, deceduto nel paese natale, in estrema solitudine, in circostanze mai chiarite, e il cui cadavere venne scoperto tre giorni dopo, insieme con l’avvertimento: “Vi prego di non essere sotterrato vivo”?

E difatti per Eugenio Montale non sarebbe neppure morto «… Se avesse potuto distaccarsi almeno per un attimo dai suoi versi…», perché «Egli non scriveva la sua poesia, la viveva in un modo del tutto fisico e per lui l’attesa era qualcosa di inimmaginabile». Nell’incapacità d’esistere nel mondo e di vivere una vita banale, aveva ridotto la sua vitalità nell’esitazione verso una compulsione poetica, in cui le parole si trasformavano in corporeità d’intrecci di nervi frementi e d’arterie pulsanti, senza avere però fresche carni da irrorare.

Letteratura potenziale e combinatoria

I primi ad apprezzare il genio rousselliano furono i surrealisti, seguiti da quanti considerano le “costrizioni” (contraintes) artificiali, vincoli e restrizioni, matematiche o scacchistiche (come le permutazioni, il giro del cavallo, o i lipogrammi), da stimolo alla creatività, e inquadrano pertanto lo scrittore parigino tra i precursori della letteratura potenziale e combinatoria.

Nuove danze…

Ne “Il secondo diario minimo” (1992), Umberto Eco propose "Undici nuove danze per Montale", applicando la pratica del lipogramma (da λείπω, lascio, e γραμμα,  lettera) ad: “Addio, fischi nel buio, cenni, tosse…”; senza e: “Addii sibili al buio, colpi rari…”, senza o: “Addii, sibili ed esili starnuti…”, con solo o: “Son sconvolto, commosso, non fo motto…”, con solo a: “AIcantara, Alba, Brà, Praga, Warszawa...”, ecc.

Chêne et chien

Nel 1936, Raymond Queneau (1903-1976) aveva scritto un’autobiografia in versi “Chêne et chien” (Quercia e cane), nella quale rimemorava la propria infanzia sul presupposto d’un trattamento psicoanalitico.

Se immagini…

La poesia “Si tu t'imagines”, della raccolta L'instant fatal (1946), venne messa in musica da Joseph Kosma per Juliette Gréco; per cui, negli anni ’60, Queneau scriverà direttamente per Johnny Hallyday il testo della canzone “Je te tuerai d'amour”.

Movimenti elementari di svestizione

Morale élémentaire” (1973) segue una struttura rigida così definita: “Innanzitutto, tre volte tre più un gruppo sostantivo più aggettivo (o participio) con alcune ripetizioni, rime, allitterazioni, echi ad libitum; poi una sorta di interludi di sette versi da una a cinque sillabe; infine una conclusione di tre più un gruppo sostantivo più aggettivo che riprende più o meno qualcuna delle ventiquattro parole usate nella prima parte". Per esempio: “Mouvements élémentaires de déshabillage// étoffe dernière/ trames légères/ surface étudiée// sac plein// mains appliquées/ fesses épousées/ ceinture traçante//mains à la place// face pale/ face débâtée/ zone sibylline// descente vive…”.

Gli amnesici non hanno vissuto nulla di indimenticabile!

Nel 1998, “Les amnésiques n'ont rien vécu d'inoubliable” di Hervé Le Tellier raccoglieva mille “Pensieri” giocosi che possono costituire altrettante risposte alla domanda: “Cosa stai pensando?”. Sostanzialmente privo d’alcun messaggio definitivo, nel trattare argomenti di vita quotidiana, elaborava “falsi ricordi” con la fugacità della mutevolezza.

Il lutto si addice ai poeti

Jacques Roubaud, organizzò dapprima una sequenza poetica con 361 variazioni geometriche del sonetto, come se fosse una partita del gioco giapponese “Go” (∈,1967), mentre di “Quelque chose noir” (1986) fece il lamento per la perdita dell’amata consorte, metabolizzato tre anni dopo, per via di quell’esitazione da lui, impropriamente, definita "afasica".

Al contrario di Eugene O'Neill che, per “Mourning Becomes Electra” (1931), era stato piuttosto prolisso, Lorenzo Calogero aveva concentrato la sua naturale perplessità: “Esita qualcuno di questi fili/ d’aria sospesi quando sulla rada/ assolata foglie tristi d’ombra/ sparge l’autunno./ La morte/ ti si addice cosí bene/ come se, dietro la vetrata glabra/ delle cose, a parlarci,/ stesse col suo viso povero/ il viso povero/ di ognuno.” (da "Sogno più non ricordo", 1956-58).

Di grande importanza, per Roubaud, la questione della “rappresentazione della morte”, in quanto la poesia si sovrappone a una serie di diciassette fotografie di Alix Cléo, che esprimono, a poco a poco, sia l'entità del lutto sia delle conseguenze che quell'assenza determina, proprio come il negativo fotografico, quando nero e bianco sono invertiti, “rivela” il rovescio dell'immagine.

Neuf/ nouveau Veuf

Difficilmente è possibile affrontare «ta semblance» (il tuo sembiante), se non che “Images de toi, ces mots” (immagini di te – sono - queste parole). La raccolta si compone di nove (neuf) sezioni (più il decimo "Niente"), a loro volta composte da nove (neuf) poesie; e il gioco con questa cifra risulta doppiamente interessante, sia perché il numero nove simboleggia una conclusione che dà accesso a un ulteriore inizio, per via di quel significato alchemico di ritorno alla matrice, fase della dissoluzione che precede una rinascita (opera al nero), ma anche perché suggerendo l'analogia "moi-neuf"/ "moi-n(ouveau-v)euf", ne sancisce la “nuova” (nouveau) anagrafica condizione di stato civile (vedovo). «Impossible d'écrire, marié à une morte» corrisponde a un «Impossible d'écrire, mariée à un poète» da parte della defunta, con cui s’identifica chi scrive, il quale, trovandosi nell’impossibilità di farlo, si considera anche lui deceduto. E in quale senso, se non in quello di coniuge: “Le coq est mort, le coq est mort/ Il ne dira plus co-co-di, co-co-da…”?

Se guardo e mi volgo attorno

L’ossessione dell’elegia non è sempre così funerea da sfumare nel massimo sarcasmo. Forse, di ritorno dal suo favoloso itinerario soprannaturale in compagnia di Virgilio, neanche Dante Alighieri, ci avrebbe trasmesso qualcos’altro di più sintetico e delicato di quanto ha riassunto, e riesumato, Lorenzo Calogero in “Se guardo e mi volgo attorno”: “… Imparo così/ di fronte ad una fievole luce chino/ il fievole declino del silenzio della vita.”.

Le Démon de l’analogie

Des paroles inconnues chantèrent-elles sur vos lèvres, lambeaux maudits d’une phrase absurde?” (Delle parole sconosciute cantavano sulle vostre labbra, brandelli maledetti d’una frase assurda?) si chiedeva Stéphane Mallarmé ne “Le Démon de l’analogie” (1874).

La speranza … “penultima” a morire

Je sortis de mon appartement avec la sensation propre d’une aile glissant sur les cordes d’un instrument, traînante et légère, que remplaça une voix prononçant les mots sur un ton descendant: «La Pénultième est morte», de façon que/ La Pénultième/ finit le vers et/ Est morte se détacha de la suspension fatidique plus inutilement en le vide de signification…” (Sono uscito dal mio appartamento con la sensazione netta d’un'ala glissante sulle corde d’uno strumento, trascinante e leggera, che ha rimpiazzato una voce a pronunciare le parole in un tono discendente: "La Penultima è morta", di modo che/ La Penultima/ terminò il verso ed/ Est morte si staccò dalla sospensione fatidica più inutilmente nel vuoto di senso…).

Poema d’una vita, non poesia d’un giorno

In una prospettiva di “insiemi”, pure per Lorenzo Calogero, è “un poema” a prendere il posto di singole poesie, il suono della voce quello della scrittura, nonché un nuovo esercizio mnemonico a divenire coerente funzione d’uno specifico generale aggregato, rispetto al quale si dovrà percepire ogni occorrenza, rimando, ripetizione. Il programmatico ritrarsi della poesia anticipa la rinuncia a mostrarsi che successivamente si ripropone  in quella stessa a vivere ed essere.

La misura della poesia/ la dismisura della filosofia

Lo testimonia Robert Walser: «Ridono e nascono/ nel va e vieni del mondo/ tanti mondi profondi/ che nuovamente vagano/ e fuggendo, attraverso gli altri,/ sembrano ogni volta più belli... ». Lo testimonia J. Ch. Friedrich Hölderlin: «… Appare spesso un mondo chiuso e annuvolato/ dubbioso interno all'uomo, il senso più crucciato,/ la splendida natura i giorni rasserena,/ sta la domanda oscura del dubbio più lontana».

Comune destino di poeti e filosofi, allorquando queste “discipline della misura”, filosofia e poesia, rientrano in quel dominio della dismisura, riservato forse solo alla filosofia?

Un pensiero bustrofedico

La poesia della modernità ha modificato la sua misura metrica, non operando apocopi ed elisioni (semmai lacerazioni), e quel che va considerato “un taglio” da darsi, appare un ritorno all’arcaico proseguire a ritroso di tipo bustrofedico (da βουστροφηδόν, ossia: βοῦς, bue, στροφή, voltura, dal verbo στρέφειν, invertire, nonché il suffisso avverbiale  -δόν, alla stregua di), un “volgersi” al canto, al versus (da vertere, voltare, andare a capo), nel senso della percorrenza, o d’una suddivisione dialettica tra successione di sillabe (forma) e loro valore rievocativo (contenuto).

Nella metrica della post-modernità, sarà l’istinto sonoro a far da modello a un tema nutrito da associazioni, attese e filtrate, dalle quali il riverbero fonico estrarrà i complessi anagrammatici nelle successive variazioni di fonemi disseminati per proliferare nelle parole.

A questo punto è evidente che la misura non sia necessariamente legata al numero di sillabe, bensì a equilibri in movimento d’altro tipo, che la componente di base continua fortemente a esigere in proprio. Una metrica allora che, abbandonando la numerica delle sillabe, accentazioni e rime, diventi semplicemente qualitativa; e suggestiva di che?

«Je dis qu'il faut être voyant, se faire voyant. Le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens.» (Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi.), scriveva Arthur Rimbaud all’editore Paul Demeny nel maggio 1871.

Il “verso saturnino”

Ne “Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure”, Jean Starobinski (1971) svela la passione ludica del dotto Maestro ginevrino per l’esegesi “anagrammatica” dei testi poetici delle lingue indoeuropee. Punto di partenza il suo desiderio di risolvere l’enigma dello schema metrico del cosiddetto “verso saturnino” (o, in latino, versus saturnius o faunius: due emistichi, di cui il primo un dimetro giambico catalettico, il secondo magari una tripodia trocaica acatalettica, come in «malum dabunt Metelli Naevio poetae», separati da una pausa fonosintattica, o dieresi).

“Numero deus pari gaudet”

All’interno di ciascun verso tutte le vocali o tutte le consonanti utilizzate una prima volta saranno raddoppiate (couplaison), poiché è di questo che un dio si compiace (“Numero deus pari gaudet”). La parola-chiave costituente l’«hypogramme» (citazione, infra-testo o sotto-testo) d’un certo passaggio sarà indicata da un «mannequin», o gruppo di parole, di cui iniziale e finale corrisponderanno a quelle del tema di fondo, e del quale nel testo sarebbero da rilevare gli elementi fonici.

Alma Venus

Al primo verso del lucreziano De Rerum Natura il «mannequin» sarà: “Aeneadum genetrix hominum divomquE”, mentre i costituenti fonici rileverebbero infine il nome di “Afrodite”, che però, guarda caso, è nome greco della dea che vi compare invece come la latina Venus. Un gioco criptografico poco convincente pure per lo stesso Saussure, ed equivalente a una fin troppo artificiosa e azzardata manipolazione applicabile a qualsiasi testo.

Arcades

Altrettanto euristico l’incompiuto progetto, “Passagenwerk” (o “Arcades Project”), intrapreso a partire dal 1927 dal filosofo e critico culturale tedesco Walter Benjamin, con la raccolta di scritti riguardanti quella successione di archi (arcades in francese), supportati da sostegni in ferro e ricoperti di vetro a mo’ di "portici", indicati quali “Passages couverts de Paris”.

Un collage di appunti e di idee

Per la prima volta Benjamin menzionò l'Arcades Project in una lettera all’amico semitista israeliano Gershom Scholem, descrivendolo come un tentativo di impiegare in letteratura le tecniche del collage. Contiene infatti convolute sezioni che, oltre ai portici, riguardano altre costruzioni in ferro, ferrovie, strade parigine, catacombe, mostre, specchi, panorami e diorami, caricature di Daumier, litografia, pittura, fotografia, storia letteraria, pubblicità, moda, interior design, modalità di illuminazione, Fourier, Baudelaire, Marx, Borsa, movimenti sociali e Comune di Parigi.

Citazionismo postmoderno

La struttura si mostra idiosincrasica, poiché quelle volute corrispondono alle lettere dell'alfabeto; le singole sezioni di testo, a volte singole righe, a volte analisi multi-paragrafo, si trovano ordinate tra parentesi, con un  sistema di numerazione derivato dai fogli, o pezzi di carta ripiegata, su cui Benjamin ha scritto gli appunti, includendo alla fine di alcune sezioni dei riferimenti incrociati, indicati da piccoli riquadri racchiudenti la relativa parola chiave. Le sezioni di testo riportano a volte i pensieri dell’Autore, altre volte citazioni di altri. L'ordinamento dei frammenti nella ricostruzione editoriale rende questo libro molto simile a un palinsesto a più strati, il che ha contribuito a farlo considerare un degno precursore del “postmodernismo”.

La poesia segue allora il flusso di coscienza, riproponendo la procedura ideativa in uno stile che ne sottolinea l’assenza, come della realtà e del significato della stessa.  

Verosimiglianza e plausibilità

Allo scopo di offrire un resoconto dei principi strutturali della letteratura, concepita come un ordine totale di parole, in “Anatomy of Criticism: Four Essays” (1957), H. Northrop Frye introdusse il principio di plausibilità, verso la quale tende la dimensione della verosimiglianza del naturalismo del reale.

Dianoia e prosodia

Se il modello strutturale dell'immaginario corrisponde alla chiave musicale, in uno schema statico, come quello delle idee (Diànoia, διάνοια, «intenzione», da δια «attraverso» e νους «ragione»), il movimento narrativo che va da una struttura all'altra, comprendendo anche quella del significato archetipico, equivale al ritmo musicale. Ed è forse in tal senso che si ottempera alla richiesta d’esattezza nella definizione di “lirica” come genere poetico, senza per questo richiedere l’accompagnamento dello strumento lira, per via dell’armonia della voce recitante, piuttosto che nella denominazione di “ritmica”, al di là della classica intonazione prosodica (in greco: Προσῳδία, da πρός e ᾠδή = in latino accentus, da ad e cantus) nel succedersi di sillabe toniche e atone, in quanto cadenzata lo è pure la prosa.

“Mentalizzazione” spersonalizzata

Ma, “se la prosa è un’invenzione, il canto, come dice un antico proverbio russo, - e confermava Roman Jakobson - è la verità”, a cui si rivolgeva Lorenzo Calogero con: “Non sappiamo come chiamarti./ Gli eventi ti sussurrano in un modo,/ ma lontano da noi tu sei/ colle ali distese.” (Verità, da “Poco suono”, 1933-5), come  ne “Le Démon de l’analogie” di Mallarmé.

Nel 1935, ad Adolfo Casais Monteiro, Fernando Pessoa chiariva così la menzogna della sua eteronimia “… Sia come sia, l'origine mentale dei miei eteronimi risiede nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente per me e per gli altri, si sono mentalizzati in me, voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica esteriore e di contatto con gli altri. Esplodono verso l'interno, e io li vivo nella mia solitudine...”.

Niente e nessuno

Não sou nada./ Nunca serei nada./ Não posso querer ser nada./ À parte isso, tenho em mim todos os sonhos do mundo.// Janelas do meu quarto,/ Do meu quarto de um dos milhões do mundo que ninguém sabe quem é/ (E se soubessem quem é, o que saberiam?)…” (Non sono niente./ Non sarò mai niente./ Non posso voler essere niente./ A parte questo, ho dentro me tutti i sogni del mondo.// Finestre della mia stanza,/ della stanza di uno dei milioni al mondo che nessuno sa chi è/ - e se sapessero chi è, cosa saprebbero?-…, da Tabacaria, 1928).

Adynaton, Aporia, Amekhanía?

Tutte queste negazioni le si ritrovano nel calogeriano “Avaro nel tuo pensiero” (1955), spesso all’incipit: «Non mi riconosco», «Se di quando in quando/ non so più il mio nome», «Non so quali siano più le voglie», «Non so più nulla della solitudine tua», «Non mi ricorderò mai più di te», «Più non so il tuo sorriso». Non ci si trova di fronte alla riproposizione d’un paradosso socratico, semmai dell’aporia (ἀπορία) dinanzi a insistenti interrogativi (“τι εστί”), neppure all’iperbole (illogica o metalogica?) d’un’impossibilità, o adynaton (ἀδύνατον, da α- alfa privativa e δύναμαι), né all’astenica adinamia (αδύναμια), poiché il segno negativo esprime piuttosto la consapevolezza d’un’assoluta impotenza: «so di non essere mai stato». Forse, rimanda a quell’Amekhania (Ἀμηχανία) di Alceo, l’esponente illustre della cosiddetta lirica monodica, di tipo soggettivo, in funzione conativa: “Funesto intollerabile male è Penia (Πενία, povertà)/ doma un grande popolo/ assieme a sua sorella Amakhanía (assenza d’intenzione e … disperazione)” (frammento 364).

 “… Ma perché da parti uguali erme divise/ non più ti soccorrono fermi i tuoi pensieri/ sopra i tuoi fiori nella medesima aridità che ora scintilla essa balena/ e ti accorgi di essere più solo./ Avaro nel tuo pensiero,/ la stessa sostanza arida t’invischia/ solo per tuo diletto.// Erme cinte di cose/ appaiono già tutte le rose.”.

Apologia del senso

Il plausibile, in senso sociale ed etimologico di “degno di plauso”, coincide sempre con il significato logico e argomentativo di razionale? Ciò ch’è apprezzato è sempre accettabile e ciò ch’è stato approvato risulta poi così convincente? 

La parola greca apologia (απολογία), dalla quale deriva l’aggettivo apologetico, e il termine che indica tutta quella letteratura rivolta a un’esaltazione, appunto “apologetica”, e in particolare in ambito cristiano specificatamente alla dimostrazione del carattere divino della “Rivelazione”, possiede anche altri significati, di difesa, e proprio della verità, o di giuridico rigetto d’un'accusa, ma sostanzialmente andrebbe tradotta in “fornire una risposta”, dal significato assai più intenso.

Da termine legale del greco classico s’è arrivati al significato profondo di “dare senso” a qualcosa. E qual è l’apologia della vita? La poesia? E quale l’apologia di quest’ultima?

La lirica quale manifestazione dell’io solitario, e non dell’intimità del singolo, “suono” autonomo dell’io che parla in terza persona (io-tutti), allo stesso tempo monologo e dialogo e simposio filosofico. Espressione lenta d’un indugio in una  scrittura e lettura modulata, a volte sommessa, la cui elevazione va coniugata con calma e chiarezza e senza rimbombi. Perché la poesia necessita d’un tempo dilatato, che recuperi quello che s’è perduto, nell’esasperata attualità dell’esistenza?

Jungen Dichter

In “The Anxiety of Influence: A Theory of Poetry” (1973), Harold Bloom ha rimproverato quest’apprensione del “giovin poeta” (Rilke: “Briefe an einen jungen Dichter”, 1929) nell’affanno d’accodarsi a una tradizione, temendo il rischio d’una sua individuale marginalizzazione da parte della comunità dei vati “laureati”. Inquietudine che può avvertirsi inadeguatamente limitante invece d’essere di idoneo stimolo.

La vostra vita, fino nella sua ora più indifferente, più vuota, deve diventare segno e testimone d’un tale impulso.”. Rainer M. Rilke ricalcava il pensiero espresso da Rimbaud a Demeny: «Il primo studio dell'uomo che voglia diventare poeta è la conoscenza di sé, intera; egli cerca la sua anima, l'indaga, la tenta, l'apprende. Dal momento che la conosce, deve coltivarla».

Nelle poesie del primo periodo non meravigli, pertanto, la timidezza nel trattare un materiale ancora estraneo con cui non si riesca a dimostrare particolare dimestichezza. In questa fase piuttosto rigida sembra che le rime si debbano affannosamente cercare, più che trovare nella quiete dell’eloquio, con il disastroso risultato d’affaticare la spontanea placidità d’un metro fluente, appesantendola in maniera elefantiaca.

La svolta indicata da Bloom (sulla scia dell’autore delle “Elegie duinesi” e di chi, perennemente in fuga da Charleville, cominciò con versi legati per arrivare al verso libero e alla poesia in prosa), indirizza, forse inavvertitamente, verso quella postmodernità di Walter Benjamin, delle frammentazioni di Mallarmé, degli anagrammi di Saussure, degli enigmi di Roussel, delle ripetizioni, allitterazioni ed echi di Queneau?

Scrittura disposofobica?

Giochi di parole tuttavia sempre meno ludici, nella confusione di appunti e ritagli, tra silenziose cianfrusaglie, bric-à-brac da collezione, oggetti smarriti da robivecchi, cose inutili accumulate in ambiti disposofobici, tutti che però si propongono quali modelli compositivi della contemporaneità, ricollegabili come sono alle libere associazioni psicanalitiche costituenti quel materiale inconscio, che proprio  nella sua inconsapevolezza si rende perfino spiazzante e dunque provocatorio.

“… Ho esagerato un po’…”

Il surrealista Man Ray, nel 1933, ha fotografato in bianco e nero un ombrello e una macchina da cucire appoggiati su un tavolo da dissezione anatomica, ispirandosi alla famosa frase di Lautréamont (da “Les Chants de Maldoror”, 1869): «Beau comme la rencontre fortuite, sur une table de dissection, d'une machine à coudre et d'un parapluie». La foto è divenuta un emblema della corrente surrealista, mentre a suo tempo Lautréamont dovette chiarire le sue ascendenze letterarie e i suoi propositi culturali: «Ho cantato il male come hanno fatto Mickiewicz, Byron, Milton, Southey, de Musset, Baudelaire. Naturalmente ho esagerato un po’ il diapason per fare del nuovo nel senso di quella letteratura sublime che canta la disperazione soltanto per opprimere il lettore e fargli desiderare il bene come rimedio. Così è sempre, dopotutto, il bene che è il soggetto, soltanto il metodo è più filosofico e meno ingenuo di quello della vecchia scuola…».

Medietas e/o brevitas?

Senza questi più o meno illustri precedenti “sperimentali” risulta difficile l’approccio alla poetica di Lorenzo Calogero, sempre in equilibrio precario tra contemporaneità e neoclassicismo manieristico, o barocchismo metafisico, alla John Donne (“No man is an island,/ entire of itself… Therefore, send not to know/ for whom the bell tolls,/ it tolls for thee.” Meditation XVII: Nessun uomo è un’isola,/ completo in se stesso… Così, non chiedere/ per chi suona la campana,/ essa suona per te.), nel senso dell’ispanica “agudeza”, di cui, nel suo trattato sull'Agudeza y arte de ingenio, Baltasar Gracián fornisce la seguente definizione: "Ogni potenza ha un sovrano tra i suoi atti, e un altro tra i suoi oggetti; tra quelli della mente regna sovrano il concetto, trionfa l'argutezza. Quello che per gli occhi è la bellezza, e per gli orecchi l'armonia, per la mente è il concetto".

Ostico accostarsi alle sue inspiegabili, snervanti attese, alle sue inimmaginabili proiezioni verso direzioni improbabili, come in mancanza d’una cosciente, e cogènte, progettualità.

Nasconditi in questo bruno/ tramestio di foglie: che nessuno/ ci veda: tu sei l’angelo dorato./ L’acqua te cerca che sale, sale.// Alla fresca fonte ho riempito/ una brocca per dissetarti,/ cibarti.” (Angelo dorato) .

L’impressione che si ricava è che sia la parola ad approfittarsi di lui; a giocare con lui, e non viceversa, sarebbe pure l’immagine, che infatti, per Gaston Bachelard (“L’air et les songes”, 1943) è il vero soggetto del sogno come del verbo immaginare: cosicché vocaboli inseguono figure in cui potersi riconoscere e identificare e le visioni colloquiano con l’articolazione della voce che le denomina; l’appartenenza loro alla natura viene compresa nella solitudine, e solo dall’amarezza, indirizzando verso ignoti campi, ancora da esplorare, d’una “retorica psicologica”, nella quale s’è addensato un imponderabile valore d’insignificanza; ma qui nel senso quasi vibrante d’un modesto ritrarsi dall’importanza del rilievo ufficiale, accettando anzi la marginalità come filosofia di vita: "...μέσον τε καὶ ἄριστον ..." (… in mezzo è la cosa migliore…, dall’aristotelica “Etica Nicomachea”: 1106a 26-1106b 35, ispiratrice dell’oraziana “medietas”, μετριότης, sposata alla “brevitas” dei Sermones composti in quell’esametro dattilico tipico del genere della “satura”).

“CLIX: ho rubato un filo di capelvenere/ e il suo gambo è dolcissimo,/ ho sentito quel che mi trattiene.” (dai Quaderni del 1957).

Nihil molitur inepte

Già nel XVII  sec., il gesuita spagnolo Baltasar Gracián s’era dedicato a uno stile polisemico, denso e molto personale, improntato su frasi brevi e concentrate, nel quale dominano un’ingegnosa associazione d’idee e il gioco di parole. Ne risulta un linguaggio laconico, eppure stracolmo d’aforismi, teso a esprimere una ricca gamma di significati. Per Benedetto Croce s’era ispirato ai “Discorsi sopra Cornelio Tacito” (1635) di  Virgilio Malvezzi, di cui in particolare ammirava la concisione unita alla profondità («en la profundidad, en la concision, en la sentencia dexa atras muchos poemas», nella profondità, nella concisione, nella frase si lascia dietro tante poesie) delle biografie “ragionate e moralizzate” di Romolo e Tarquinio, di cui «se puede decir con verdad que nihil molitur inepte, pues no tiene palabra que no encierre un almo, todo es viveza y espiritu» (si può dire con verità che non fa niente di stupido, perché non ha parola che non racchiuda un'anima, tutto è vivacità e spirito).

Diatriba tra σπουδαῖος o γελοῖος

Abbandonando i temi diatribici, come pure lo σπουδαιογέλοιος (che non distingue il serio σπουδαῖος dal faceto γελοῖος) di Menippo di Gàdara, il tono, nient’affatto saturo, si fa più discorsivo, narrativo, a tratti dialogico, ma più spesso scade in monologo, o in vero e proprio solipsistico soliloquio.

Ho sempre fatto brutti sogni!

“27 giugno 1936: Ho fatto un brutto sogno stanotte./ Mi pareva che una foresta/ perlata di laghi m’invadesse./ Tremuli queruli fanciulli/ giocavano sul mio guanciale.” (dai Quaderni manoscritti 1936).

La “respirazione della lettura”

In quello che di Calogero  fu un unico poema non può esserci spazio, che molto di rado, per singoli componimenti (i “satirici” d’Orazio, magari di dieci per il primo libro pubblicato nel 35 a.C., e otto nel secondo del lustro successivo), che possano esser d’aiuto a renderci memori d’un qualche capoverso, che detti la “respirazione della lettura”, secondo uno stile autoriale dal ritmo ristretto o esteso, che suggerisca l’introduzione a un blocco “narrativo” che poi si dimostri conclusivo o di passaggio al successivo, o che abbia il potere di darci l’idea di qualcosa che nel contempo sia rimasta in sospeso.

Imparai ad esser quieto,/ ad udire più armoniosi accenti./ Quando il riso mi venne a ferire/ aspettato lungamente/ su per i baratri immensi,/ usci sulle amorose grotte./ Canti di gallo erano/ che mi aspettavano./ La natura si spingeva/ coll’occhio dell’alba.” (da “Parole del tempo”).

The Elements of Style

La celebre Quarta edizione di “The Elements of Style” (1999), di  William Strunk Jr. ed Elwyn Brooks White, invita ad “aprire” con una parola o una frase chiave che alluda all’argomento o ne faciliti una transizione; affermazioni concise, onnicomprensive, con la funzione di tenere assieme i dettagli successivi. Eppure s’annota che qualunque espediente venga usato troppo spesso diventa un manierismo. In assenza di frasi-chiave, la brevità amplifica la velocità dell’azione, rendendo la successione più rapida, e per mettere in evidenza i dettagli occorre ricorrere a pause retoriche.

Con passi lunghi e col ciglio aperto/ faccio la scalinata grigia dei monti/ per vedere nuovo bianchissimo orizzonte/ come nel ciglio dell’anima s’é aperto.// L’immensità è quieta, dorme:/ la trafugo dal dolore umano./ Sento la fuga dei rimpianti/ vaticinare in fondo/ nel chiuso d’una siepe.// Sono col piede chiuso alto sui monti.// Parto.”

I pugni in tasca

Nella sua stranezza familiare fa forse da controcanto a “Ma Bohème” del suo omologo francese dalla visione libera e dall’ordine sintattico spezzato, Rimbaud: «Je m'en allais, les poings dans mes poches crevées;/ Mon paletot aussi devenait idéal:/ J'allais sous le ciel, Muse! et j'étais ton féal;/ Oh! là là! que d'amours splendides j'ai rêvées!... » (Stavo andando, i pugni nelle tasche bucate;/ anche il mio pastrano divenuto ideale:/ andavo sotto il cielo, Musa! e ti ero solidale/ oh! là là! che splendidi amori ho sognato!...).

"Mandai lettere d'amore/ ai cieli, ai venti, ai mari,/ a tutte le dilagate/ forme dell'universo./ Essi mi risposero/ in una rugiadosa/ lentezza d'amore/ per cui riposai/ su le arse cime frastagliate loro/ come su una selva di vento.// Mi nacque un figlio dell'oceano." (da “Parole del tempo”), pare rievocare temi di P. B. Shelley: “O wild West Wind, thou breath of Autumn's being,/ Thou, from whose unseen presence the leaves dead/ Are driven, like ghosts from an enchanter fleeing, Yellow, and black, and pale, and hectic red,/ Pestilence-stricken multitudes…” (O selvaggio vento dell'ovest, tu respiro dell'essere autunnale,/ Tu, dalla cui presenza invisibile le foglie morte/ Sono guidate, come fantasmi da un incantatore in fuga,/ Giallo e nero e rosso pallido e frenetico,/ Moltitudini colpite dalla peste…).

Poema per frammenti

“…  È il suono/ dell’essere felice, gioia non tersa/ calma nel suo fondo” (da “Gelide parvenze”, 1962).

Con costanza, Calogero sembra comportarsi controcorrente. Il “nostro” poeta non parte affatto “Con passi lunghi e col ciglio aperto…”, se così si può dire, e sempre che di partenza si sia trattato, da un “momento narrativo” d’episodica importanza, quanto piuttosto da un parola o da un gruppo di parole che sono più condizione  sonora che guide di significato, ovverossia da un accordo primitivo probabilmente consonante a quanto verrà solo in un secondo momento ad assumere un valore di significato: d’idea mallarmeana di poema per frammenti, ma anche d’altro.

Di tanto rovinoso mare/ poco suono giunge/ al mio orecchio assorto/ in ascoltazione dell’Eterno/ che come un angelo passa”.

Il processo compositivo è di tipo musicale e nelle radici sonore dei versi va dissipando la propria energia; e sciogliendosi dalla pagina si libera da una vista incerta per affidarsi solamente a un udito quasi precario.

Se per poco odo e tolgo a la voce/ non mi resta che un’immagine/ per finire. Fu scaturigine/ quieta la tua vita come acqua,/ così partecipe esigua la spiegazione./ Il taciturno lento svolgersi delle stagioni/ ti si addice. Non so in quale artefatto/ rarefatto moto dei monti o pressoché simile/ umile era fatto alle origini. Pure potevano/ svilupparsi il silenzio, una migrazione/ gelida, un puro spazio/ in pure pause di ombre./ Uguale lievita e riecheggia la brezza/ e risponde. Il mattino sul colle inclemente/ era la causa dei sogni.”.

Il problema dell’ispirazione

La provenienza della narrazione resta indecifrabile nella sua insorgenza, ma insistentemente chiede d’essere pronunciata in piena autonomia dalla logica della scrittura. Quasi che l’ispirazione non dovesse precedere il successivo momento compositivo, anzi viceversa è l’elaborazione a fungere da suggerimento.

Abiti, svolazzanti cappelli/ e guanti portano e l’alito/ di una canzone che batte in fronte/ e il mesto bagliore degli occhi/ trattiene; e se i venti/ sono senza confine, ecco,/ sulle tegole rosse, appaiono/ leggere le muse; e cime/ e città fantastica stanno con gioia,/ ora che olio versa/ da una vana lucerna una vana fanciulla/ e paesi persi del tempo/ in una luce che li smorza gemono/ in una vana rincorsa”.

Quante Muse?

Nel secolo scorso, a Melicuccà, quali e quante erano “las musas menores” (della “Persecución” di Juan Rodolfo Wilcock), o le eliconie (come la loro madre Mnemosine, da μεν-μαν, "creatrici con la fantasia"), che a Sikyon e Delfi erano tre, sette a Lesbo, otto per Cratete di Mallo, la metà per Cicerone, e tredici per l’ispano-cubano José Carlos Somoza (“La dama número trece”, 2003). E assecondando quest’ultimo, chi, per Calogero, funse da ninfa Egeria, come per Numa, Diotima per Socrate e Hölderlin, Beatrice per Dante, Laura per Petrarca, “Dama Morena” per Shakespeare, “Venus de Ille” per Mérimée, Lamia per Keats, “Bruja del Atlas” per Shelley, Armida per Haydn, “Reina de la Noche” per Mozart, “Alsina y la Melisa” per Händel...?

Non ci aiuta nell’identificazione di quest’improbabile Euterpe (ed Erato, Calliope e Tersicore?) neppure la “Grammatica storica del mito poetico”, cappello a “The White Goddess” (1948) del poeta e mitologo britannico Robert Graves. Piuttosto le sperimentazioni "metadiaristiche" di Tommaso Landolfi, come il titolo del 1953, volutamente tutto in maiuscolo per eludere le regole dell'ortografia francese sugli accenti ed equivocare tra birra e bara (bière), pescatore (pêcheur) e peccatore (pécheur).  Anzi, parafrasando Picasso che lo riferiva alla propria arte pittorica, per Calogero, era la poesia una personale modalità di scrivere un’intima autobiografia, aggiornando di continuo un singolare taccuino di sensazioni


 

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