La guerra tra Israele e Hamas sta mietendo vittime innocenti. Tra le strade e nei tunnel di Gaza, i civili palestinesi e gli “ostaggi" ebrei scontano gli effetti di un conflitto radicale, apparentemente irrisolvibile. Chi ha ragione, chi torto? Le Domande come queste, le semplificazioni binarie non aiutano a sciogliere la complessità in essere, a preparare un terreno futuro di possibile pacificazione.
Né più ne meno, a mio parere, serve continuare a riproporre stancamente in questo momento la retorica "due popoli, due stati". Che Stato sarebbe quello di Hamas?
Quale sovranità dovremo riconoscere? Quella dei "tagliagole" che tengono in ostaggio la propria gente a Gaza? Che utilizzano le donne, i bambini, i malati negli ospedali quali scudi umani?
E dall'altro lato, quale futuro di pace potrebbe avere uno Stato ebraico sempre più condizionato dalle Destre "ortodosse", sempre più chiuso nel proprio identitarismo, circondato dall' ostilità dei "nemici" arabi e incapace di andare oltre l'illusione della costruzione dei "muri" di contenimento? Incapace di affrontare il radicalismo dei propri "coloni"?
Sarebbe opportuno in questo contesto ricominciare ad interrogarsi, a studiare, a discutere - nel dibattito pubblico internazione - di un'altra "soluzione", di una prospettiva "etica" e non "etnica":
quella di uno Stato binazionale, di uno Stato di Diritto nel quale l'eguaglianza e la "nudità liberale" delle Persone possa prevalere sull'origine, sull' appartenenza religiosa e nazionale.
Utopia? Può essere. Ma proprio quando le armi non cessano di far morti, è opportuno schiodare gli assetti sclerotizzati, puntare ad un'aspirazione "altra", Spes contra spem. Qualche anno fa ci provò Marco Pannella, proponendo l'ingresso di Israele nell'Unione Europea, il superamento - nell'ambito sovra nazionale - degli egoismi etnici, delle rivendicazioni reciproche, degli odi atavici. Anche il "metodo Sudafrica" può aiutarci.
Non intendo, ovviamente, il metodo dell'odierno Sudafrica che, in sfregio alla Storia, chiede alla Corte dell'Aya di processare Israele per "genocidio", in virtù di quella Convenzione internazionale del 1948 che proprio a partire dalla tragedia della Shoah tradusse in norme il concetto stesso di genocidio, di certo non applicabile oggi al "caso Palestina", al netto dell'evidente violazione dei diritti umani che entrambe le parti del conflitto hanno posto in essere dal massacro del sette Ottobre 2023 ad oggi.
Io mi riferisco, di contro, al Sudafrica di Nelson Mandela e del vescovo Desmond Tutu, a quella straordinaria temperie e a quegli statisti che, alla fine del Secolo scorso, seppero superare definitivamente l'apartheid e gli effetti pericolosissimi del cambio di regime, non nella vendetta e nel sangue, non rivendicando l'etnicità del nuovo Potere ma attivando quella *Commissione di Verità e Riconciliazione* che riuscì a dare spazio e voce - in tutto il Paese - alla verità delle vittime della segregazione senza tacitare nella violenza la voce dei segregazionisti, chiamati anch'essi a raccontare, a ricordare, a riconoscersi - finalmente Uniti - in un processo di progressiva pacificazione fondato sulla necessità storica di mutamento e di futuro.
Si concretizzò, così, una formidabile applicazione del concetto di giustizia riparativa nell'ambito della violazione dei Diritti umani. Le lacrime di Desmond Tutu nel corso delle audizioni, il ruolo svolto dai comitati di risarcimento e amnistia, le confessioni, il perdono, il riflesso potente - nelle coscienze di bianchi e neri - dei racconti delle vittime emarginate; l'emersione della completa verità sul regime segregazionista e, allo stesso tempo, la rinuncia ad una declinazione, appunto, etnica e vendicativa del futuro, del nuovo Stato, salvò il Sudafrica dalla guerra civile, lo proiettò nel nuovo Millennio.
Non sarebbe opportuno cominciare a ragionare di qualcosa di simile anche in Palestina? L'Onu non potrebbe svolgere un ruolo in tal senso? Che senso ha avvitarsi ancora nelle spire perverse delle ragioni e dei torti contrapposti? Che senso ha attendere, dopo la catastrofe, la presunta Giustizia dei Vincitori?
Che senso ha stimolare l'opinione globale a prendere parte, a dividersi su fronti opposti, generalizzando e progressivamente allargando il conflitto? Il primo passo è quello, senz'altro, di distinguere le politiche dell'attuale governo Netanyahu dallo Stato di Israele nel suo complesso; uno Stato democratico (l'unico del Medioriente), con un'opinione pubblica matura e una magistratura indipendente; una Comunità di Popolo che ha già recentemente dimostrato la propria capacità di mobilitazione contro l'autoritarismo del potente di turno e contro l'estremismo dei radicali ortodossi.
Allo stesso tempo, occorre distinguere i terroristi di Hamas dal popolo di Gaza, schiacciato dalla violenza di un gruppo violento che, innanzitutto, vessa la propria gente, ghettizza gli oppositori interni, tiranneggia sulle donne, i diversi, gli inermi.
Complessità va aggiunta a complessità, dunque, fino a superare nel racconto plurale e corale, nel cuore della Verità e della Riconciliazione, l'inutile ricorso alla violenza, alla strage, alla disumanizzazione dell'avversario rappresentato come nemico assoluto, hostis humani generis. Viva il Sudafrica, quindi, e Free Gaza From Hamas! Contro ogni cultura dell' odio, della separazione, del "muro", della superiorità religiosa o nazionale.