Il Trono Ludovisi, romano, ligure o locrese?
Falso reperto archeologico o autentico capolavoro d’arte?
Il termine mègaron (μέγαρον), dal significato (prettamente archeologico) di dimora signorile, nel suo complesso (in particolare, una casa a sala rettangolare con vestibolo aperto), onde quindi, per estensione, l’ambiente domestico più interno e sontuoso (atrio, gineceo, talamo, almeno nei poemi omerici, ma altrove anche antro, sotterraneo), una volta impiegato in rapporto agli spiriti catactoni (καταχθόνιοι), servì pure a indicare quella fossa sacrificale detta comunemente bòthros (βόϑρος), entro cui si sarebbero potute versare le offerte destinate a quelle entità; ed è, in questo senso, che lo usa Plutarco nel “De Iside et Osiride” (VII, 1).
Spiriti e divinità ctonie
Alla medesima guisa, bòthroi (Schol. Eurip., Ph., 274: σκαπτή; Steph. Byz., pp. 191, 7, ed. Mein) vengono spesso chiamate le eschàrai (εσχαραι), cavità e focolari, che secondo Porfirio restano deputate a forme tipiche di propiziazione o espiazione per gli eroi, e soprattutto per le divinità ctonie (χθόνιοι θεοί), prevalentemente femminili, connesse con culti e miti legati al ciclo lunare (per esempio, l’ellenica Ἥρα Χήρα dopo esser stata Παρθένος, vergine, e Tέλειος, perfetta) e delle stagioni, alla vita dopo la morte e all'immortalità dell'anima, come pure all'archetipo topico delle ierogamie (da ἱερὸς γάμος, nozze sacre) tra rappresentanti del Cielo (Αἰθήρ, poi Οὐρανός) e della Terra (Χθονίη), la quale dopo essere stata ricoperta dalla vegetazione, che ne nasconde le sembianze infernali originarie, diventa Gea (Γῆ); e poi Cupra, per umbri e piceni, Mefite per i sanniti, Angizia per gli osci, Feronia per gli etruschi, per i latini Giunone “vedova” (Seneca, Hercules furens, Atto I; Pausania VII. 22. 2), ma soprattutto Persefone, in Magna Grecia.
Bòthroi
Porfirio (in “Apud Eusebium”, Praep. ev., IV, cap. IX, 3), rende equivalenti proprio il bòthros, insieme con il mègaron (De anthro Nymph., VI), unitamente con la ταϕή, o “fossa” (sempre Apud Euseb., cit., IV, cap. IX, 7), ai fini di quella medesima modalità devozionale nei confronti degli spiriti sotterranei (ὑποχθόνιοι… μάκαρες θνητοῖς, “inferi beati mortali”, d’ordine secondario rispetto ai “demoni buoni”, ἐπιχθόνιοι δαίμονες, che “stanno sulla terra, custodi degli uomini”), specificando come vi debbano venire correttamente versate le erogazioni liquide sacrificali (il cit. Apud Euseb., IV, cap. IX, 2).
In base alle parole di Elettra (Coephore, Χοηφόροι, 90-95; 164), la presenza del βόϑρος presso il sepolcro non aveva altro scopo se non quello di far giungere le libagioni al trapassato. Luciano (De astrol., c. 24) ricordava in che modo, intorno al bòthros scoperchiato da Odisseo, si fossero assembrati i fantasmi desiderosi di abbeverarsi. E, secondo Omero (Odissea, x, 517-520), nel bòthros scavato nella terra o nella pietra (Odissea, vi, 92), a mo’ di fossa, buca, cavità, si versava, allora, la libagione per i defunti (latte e miele, vino e acqua) e sopra di esso venivano invece sgozzate le vittime, onde il sangue di queste discendesse direttamente ad Hades (ᾍδης, o Ἀΐδης, dal proto-ellenico Awides, “invisibile”) e Persefone (dal sanscrito parṣa-gʷn-t-ih, “trebbiatrice di spighe”?) affinché fossero ingraziati nella maniera a loro più confacente (Odissea, XI, 25-47).
In contrada Marasà
Molto probabilmente era proprio questa la funzione del bòthros di quel grande santuario in cui, tuttora, si possono riconoscere, nel più ampio recinto a esso riservato (temenos, τέμενος), le componenti principali delle strutture adibite al culto, nella zona archeologica di contrada Marasà, a Locri. Con l’ampliamento avvenuto nella prima metà del V sec. a.C., il tempio arcaico esastilo-periptero (per via del perimetro colonnato, con in facciata sei di tali pilastri), dalla cella con pronao e opistodomo (il retro stanza: ὄπισθεν "di dietro" e δόμος "stanza"), circondati da peristasi (ulteriori colonne), assunse le caratteristiche dello stile ionico, grazie anche agli apporti siracusani di blocchi di calcare di ottima qualità. Al suo frontone occidentale dovevano appartenere le sculture in marmo dei Dioscuri (Διόσκουροι) e rispettivi cavalli e l’acefala statua di Nereide (Νηρείς), o forse più appropriatamente di Nike (Nίκη), poste a decorazione acroteriale, onde celebrare adeguatamente la vittoria sui crotoniati (coloni provenienti dall’Acaia) da parte dei locresi (non provenienti dall’Acaia, bensì locridi ozoli od opunzi) nella celebre battaglia della Sagra, combattuta a metà del secolo precedente (VI a.C.).
In base alla precisa ed esatta corrispondenza tra i tre lastroni di pietra superstiti del parapetto del bòthros e le dimensioni del cosiddetto Trono Ludovisi, per l’epigrafista Margherita Guarducci (1902-1999), sarebbe questa la collocazione originaria del discusso reperto romano. L’archeologo Giorgio Gullini (1923-2004) propendeva piuttosto per uno dei lati brevi dell'altare, dalle misure, comunque, altrettanto compatibili.
Alla Mannella
Suggestive pure le analogie figurative con i celebri pínakes (πίνακες) della Mannella, che avvalorerebbero tale provenienza in base alle considerazioni stilistiche, le quali richiamano ancora Hades e Persefone. Un frammento di quadretto votivo in terracotta mostra, infatti, il particolare d’una figura femminile pressoché identica a una delle due donne rappresentate sui lati del controverso Trittico marmoreo.
Ascesa o ànodos
In altra ricomposizione, fatta da Paola Zancani Montuoro (1901-1987), si riconoscerebbe il motivo di un ànodos (άνοδος, o "ascesa", quale terza fase del ciclo della visita annuale all'Ade) “marino” di Persefone (Essays in Memory of Karl Lehmann, p. 386 ss.), che indurrebbe a pensare a quella che potrebbe essere considerata come una sorta di contaminazione con schemi figurativi tradizionalmente sacri ad Afrodite (Ἀφροδίτη), o di una possibile sua usurpazione locale.
La frattura della parte superiore del rilievo a tre facce non permette, purtroppo, di stabilire, con assoluta certezza, quale sarebbe dovuta essere la forma originaria e, di conseguenza, neppure la primitiva funzione: parapetto montato davanti alla fossa sacrificale, basamento di statua, balaustra, parte superiore d’un’edicola funeraria, paravento d’una sacra rappresentazione da inscenare periodicamente, in una specie di coup de théâtre, durante la celebrazione della nascita, o rinascita, d’una dea (Afrodite, dunque, nel primo caso, altrimenti ancora Persefone), ecc..
Ara votiva e/o piedistallo di statua
Per molti versi, la morfologia richiamerebbe un po’ più la mensa votiva, come quelle cosiddette "a porte" (esempi a Thasos, Θάσος, nell'Egeo Nord Orientale). L’archeologo tedesco Ernst Langlotz (1895-1978) è arrivato tuttavia a postulare una sorta di scivolamento progressivo tra le distinte modalità, sin quasi a una fusione, identificabile infine nella tomba di Giacinto ad Amyklai (Ἀμύκλαι, Laconia), in cui il piedistallo della statua d’Apollo (Ἀπόλλων) assume la forma dell’ara dedicata al nipote di Lacedemone, su un lato della quale s’apre un agile accesso riservato (Pausania: Periegesi della Grecia, III, 19, 3-5).
'Αϕροδίτη Ἀναδυομένη
Il gruppo marmoreo dei Dioscuri, il ritrovamento di terrecotte raffiguranti Zeus (Ζεύς), oppure i manufatti dedicati chiaramente ad Afrodite, avrebbero messo in dubbio l’indiscussa, e per altre, varie, motivazioni, maggiore importanza della Kore di Demetra. L’epiteto di Anadyomene (Ἀναδυομένη, "emersa"), che spesso si affianca alla dea dell’amore (Pandemo, Πάνδημος, protettrice degli amori terreni, “volgari”, profani), è sufficiente a farne una divinità “marina” (per via della derivazione di 'Αϕροδίτη da αφρος, aphros, "schiuma"), e quindi protettrice dei naviganti, in quanto Euploia (Ευπλοιάς, agevolatrice del viaggio) e Pontia (Πόντια, oceanica), anziché “celeste” (Urania, Ουρανία), in base molto verosimilmente all’etimologia più arcaica, pelasgica, di Afër (vicino) e dita (giorno), che, anche se riferita a un pianeta, equivale a “stella del mattino” (la latina Venus “diana”, da dies, giorno)?
Anche le etimologie alternative di Ἀΐδης, dal proto-ellenico Awides, “invisibile” (da cui Ἀϊδωνεύς, Aïdōneús) e di Persefone, dall'indoeuropeo pelasgico pers-é-bhn̥t-ih, "colei che fa passare la luce" (come la dea albanese dell'alba e dell'amore, nonché protettrice della femminilità, Premtë o P-ë-rende?), sarebbero suggestive di interpretazioni differenti dei miti loro annessi, per via d’un’inaspettata e sorprendente commistione misterica e semitica: Aïdōneús/ Àdōnis, Ἄδωνις/ Adonai/ Adon, paredro ("colui che siede accanto", da παρά, "presso", ed ἕδρα, "sedia") di Astarte, biblica Ashtoreth.
Anodo dall’Erebo
La scultura, che oggi si trova presso Palazzo Altemps, a Roma, presenta una decorazione a bassorilievo, che sulla parte frontale mostra una figura femminile (mortale o dea?), seminuda, - perché indossa un’attillata “sottoveste”, trasparente, o persino bagnata, non in grado di nascondere le forme del suo corpo dalle mammelle “discoste” -, colta nel bel mezzo d’un indeterminato momento di particolare intimità e sacralità (un bagno rituale, una lustrazione purificatoria, un parto?), mentre risale dal basso (άνοδος dall’Erebo?), aiutata in questo suo “ritorno” (alla madre Demetra?), forse un “risorgere”, da due servizievoli compagne e assistenti (soltanto due Horai, Ὧραι, o Cariti, Χάριτες?), impegnate a sorreggere un panno, il telo che funge da “sipario” alla mistica rappresentazione e che parzialmente ne nasconde le parti inferiori del busto, e le più intime del ventre.
Una scena composta ed estremamente armoniosa in quell’intreccio di braccia che disegnano geometrie simmetriche, quasi all’incrocio d’un moto ondoso e d’un baluginio di raggi rispecchiati dalle giovani membra. L’effetto ottico d’insieme, in quell’incisione di piani sovrapposti, nel gioco di curve dolcemente ascendenti, fornisce, infatti, il senso del movimento e dei riflessi della luce.
Peplo dorico, chitone jonico
Forse, l'inserviente di sinistra indossa una tunica dorica (peplo, πέπλος) e la destra invece una ionica (chitone, χιτών), poco distinguibili però in assenza della parte superiore dell'indumento, in un caso fermato su d’una spalla da fibule e nell’altro semplicemente appoggiatovi sopra. Entrambe sono scolpite in maniera da evidenziare, tra le numerose pieghe, più la rotondità delle cosce che lo slancio delle gambe; teste e spalle sono andate irrimediabilmente perdute a causa d’una mutilazione (oppure non sono state affatto previste per completare il quadro finale?). I loro piedi nudi poggiano su d’un terreno pietroso, una sorta d’acciottolato, contribuendo a suggerire un rudimentale accenno all’ambientazione, che potrebbe essere una spiaggia, come pure la riva d’un ruscello.
Il dìaulos
Sul lato sinistro, la suonatrice d’una specie d’aerofono a due tubi divergenti (dìaulos, δίαυλος), sorretto da mani gravemente danneggiate, riposa nuda (in quanto etera, ἑταίρα o ierodula - da ἱερόν "tempio" + δουλία "servitù" - e icona d’«amor profano»?), eccetto una sorta di “cuffia” a ricoprirle i capelli; un krḗdemnon (κρήδεμνον), forse, velo, foulard o bandana, che compone tre elementi ornamentali per legarli insieme: ámpux (ἄμπυξ, "frontale"), kekrúphalos (κεκρύφαλος, "retina") e anadésmē (ἀναδέσμη, "fascia"). Sta mollemente adagiata su d’un cuscino, ripiegato in parte su se stesso; e, nel mostrare con inusuale disinvoltura, le gambe accavallate, lascia sorgere però dei seri problemi, non solo di inattesa spregiudicatezza, ma pure di prospettica rappresentazione: in quella sovrapposizione della coscia destra sul ginocchio sinistro viene a mancare, nella successione di piani, la precisa corrispondenza con l’anca non in vista.
Il thymiatérion
Dall’altro lato, quella che, di primo acchito, sembrerebbe una sacerdotessa anziana, o una sposa molto seria e consapevole del suo ruolo, nonché simbolo d’«amor casto», canonico, sacro e celestiale (quasi come in un’anticipazione della tematica tizianesca?), sembra raccolta in preghiera, intenta a celebrare un rito di fumigazione, nel deporre granelli d’incenso estratti da una pisside su d’un apposito brucia-essenze (thymiatérion, θυμιατήριον; da "suffumicare", θυμιάειν), deteriorato in modo simile alle mani; anche l’attempata è analogamente seduta, ben più compostamente, e rivestita di tutto punto da un manto (himàtion, ἱμάτιον) che le ricopre le braccia e pure il capo, in segno di rispetto e devozione nei confronti della divinità che viene venerata. Stranamente, però, i sandali (πέδιλον) da lei calzati sono privi del dettaglio delle necessarie, immancabili, corregge.
Non trascurabile elemento, quest’ultimo, unitamente al mal posizionamento della coscia destra della flautista in relazione all’omolaterale attaccatura dell’anca, e ai turgidi seni disgiunti; fin troppo realistici in una kore (κόρη, figliuola), e più da popolana procace, quanto mortale, che da verginella, spinti come sono all'infuori dalle braccia sollevate in alto, per la contrazione dei forti muscoli pettorali, e quasi sporgenti dal pannello, e comunque più della testa; tali particolari solleverebbero un serio problema tecnico, oltre che di prospettiva.
Si tratterebbe, forse, di alcune di quelle “sproporzioni funzionali”, frequenti nell’arte scultorea, strumentalmente accomodanti e praticate nel caso in cui l’opera sarebbe stata progettata sin dall’inizio per essere vista dal basso?
Uno stile proto-classico?
L'azione nel suo complesso, il dettaglio dei suoi tipi facciali, quei rudimentali stacchi e repentini ritiri alle estremità, il problema di rendere il movimento risolto dall’uso del panneggio e quel gioco sofisticato d’imitazione della consistenza dei materiali, tutto ciò suggerirebbe trattarsi d’un reperto verosimilmente appartenente al periodo “severo”, di transizione tra l'arcaico maturo e il pieno classicismo (ossia dall'invasione persiana dell'acropoli di Atene, con la concomitante distruzione, all'inizio approssimativo dei lavori al Partenone), durante il quale gli artisti greci avrebbero avuto modo d’ampliare ed elaborare le precedenti forme arcaiche prima d’estinguerle definitivamente nel vero e proprio stile classico. Il Trono Ludovisi sarebbe, allora, databile tra il 480 e il 450 a.C.?
Una considerazione attentamente critica rileva in realtà come il Trittico non rientri a pieno titolo in quel flusso centrale dell’arte greca coincidente con i termini cronologici della fase “severa”, indissolubilmente connessi alle vicende ateniesi, che solo in parte hanno potuto coinvolgere tutto il restante mondo greco d’allora. E poi, c’è da notare quell'uso di indumenti dissimili (il peplo dorico occidentale affiancato all’orientale chitone ionico), i dettagli accuratamente rifiniti nell’incisione sul davanti, in netto contrasto con quella semplice approssimazione dei lati e soprattutto l’assoluta novità del soggetto che ci restituirebbe la “fanciulla” (κόρη) protagonista come uno dei primi nudi femminili nella storia di tutta la scultura greca.
Una copia romana?
Tali argomentazioni sarebbero sufficienti a dedurre che il Trono, rispetto alla migliore posizione dell'area centrale della Grecia continentale, potrebbe avere una provenienza piuttosto periferica, stilisticamente e ancor più tematicamente, riconducibile al meridione d’Italia, e in particolare a Locri Epizefiri (Λοκροὶ Επιζεφύριοι). Per non parlare dell’eventuale possibilità che sia una copia, anche antica, ma romana, come altre importantissime opere trovate negli “orti sallustiani”, quale, per esempio, il celebre “Galata morente”?
La storia dell'arte, che non può definirsi una scienza esatta, non si può neppure permettere d’escludere a priori delle rivoluzionarie rivelazioni da altrettanto sconvolgenti rilevazioni. A cominciare dalle pitture del IV secolo a. C., che mostrano schemi figurativi a noi assolutamente sconosciuti, alle vere e proprie sorprese stilistiche delle tombe reali macedoni di Verghina (Βεργίνα), per tacere degli inaspettati doni offerti dal mare, come i Bronzi di Riace, le stranezze sembrano proprio rientrare nell’ordinario.
Passi per lo “scandalo” (epocale) del nudo, però, una figura di donna con le gambe incrociate può considerarsi, senza sollevare alcun ragionevole dubbio, un'espressione artistica “arcaica”, e poi sicuramente magnogreca?
Un simbolismo ottocentesco?
Il sospetto potrebbe consistere nel fatto che appartenga a tutt’altro periodo, e sia uno dei tanti capolavori, sì, ma del simbolismo figurativo prodotto dal tardo Ottocento, attribuibili a un artigiano (non certo uno “scalpellino”), che avrebbe operato in un’Italia da poco unificata, intorno alla fine del XIX secolo, forse lo scultore e collezionista antiquario genovese Santo Varni (1807-1885), che ha lasciato numerose sue opere nel cimitero monumentale di Staglieno?
Eventuali modelli
L’ispirazione l’avrebbe potuta trovare in una architrave romanica scolpita da Biduino per la facciata laterale del San Salvatore a Lucca; in un monumento sepolcrale (a Margherita di Lussemburgo?) del XIV sec., attribuito a Giovanni Pisano; e soprattutto nelle silhouettes di specchi etruschi bronzei dell’Archeologico di Firenze o del British Museum; e siccome questi ultimi manufatti sono rotondi, non hanno offerto suggerimenti sufficientemente validi a far da modello per gli “angoli” del Trono, che difatti sono rimasti, non certo “volutamente”, trascurati e praticamente “vuoti”.
L’immagine della suonatrice di flauto, in particolare, deriverebbe da certi vasi attici di Napoli e San Pietroburgo, oppure dagli affreschi della necropoli di Monterozzi (Tomba Cardarelli, del Triclino). Soltanto il marmo è davvero antico, provenendo da cave dell'isola greca di Thasos; per via della forma del trittico, s’è ipotizzata la riutilizzazione della fiancata d’un sarcofago, di cui siano state riscolpite esteriormente soltanto tre facce.
Di dubbia autenticità, però, s’è parlato persino per la Fibula prenestina (al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini), oppure per il cavallino bronzeo del Metropolitan Museum di New York, che invece, a una più attenta lettura dei “fatti”, non si sono poi rivelati dei falsi.
Ēós?
Eppure, sembra, quasi, che le quinte di questo dramma scenico rivestano maggiore importanza dell’immagine centrale. In quel loro geometrico inscriversi in un triangolo imperfetto, le due effigi laterali contribuiscono alla ricomposizione di ciò che avrebbe potuto svolgere le funzioni, che per molti versi ripetono, delle parti angolari dei frontoni, così come sono apparentemente distaccate, e al contempo attivamente partecipanti e non separabili dalla centralità dell’evento principale. Dalla sommessa tensione mistica di quell’essenziale immobilità del loro simbolismo liminale proviene tutta l’energia estatica d’un radioso slancio di braccia che si protendono verso l’alto al roseo affiorare dell’aurora.
In tal caso, dunque, un’Eos (Ἠώς), non accompagnata da Elio e Selene, né da Faetonte e Lampo. E, a questo punto, perché non Teti (Θέτις) partoriente, Rhea (Ῥέα) purificantesi, oppure Hera Teleia ( Ἥρα Τέλεια), pronta per il matrimonio, al compimento della stagione (hora, ῟Ωρα) più opportuna e propizia?
Questioni tuttora irrisolte
Ma questa non è che una delle tante assillanti domande destinate a rimanere senza risposta, nonché delle scottanti questioni ancora aperte, tra le più subdole che possano tormentare il campo della storia dell'arte antica. Non soltanto, quindi, cosa si sia inteso rappresentare nei tre pannelli a rilievo, bensì anche in che classe di monumenti andrebbero, nel loro insieme, catalogati, accennando infine alla più rischiosa di tutte, e cioè quella riguardante le relazioni esistenti o riscontrabili con quel discutibilissimo corrispondente bostoniano, che ne costituirebbe una sorta di simmetrico pendant, proveniente dal mercato antiquario romano, e abbastanza simile e nella forma nel suo complesso, e nella sintassi decorativa, tout court, da far riflettere sulla sottigliezza d’una delicatissima distinzione tra eccessiva originalità e fraudolenta falsificazione.
Trono di Boston
Tra le tante incongruenze iconografiche e stilistiche, manca pure, per esempio, nell'orlo inferiore, la tipica anathyrosis (αναθύρωσις, rivestimento con pietre di giunzione, scolpite in modo da sporgere, o meglio adattarsi), che, nel migliore dei casi, ne riporterebbe in avanti la fattura all’epoca romana, periodo tiberiano, quale coronamento, piuttosto eclettico, d’un’edicola funeraria.
Frontalmente, un alato giovinetto nudo, i cui piedi (divaricati a squadra, quasi in posizione di riposo da un improbabile addestramento militare) a malapena sfiorano il limite inferiore del riquadro, sogghigna rivolto a chi guarda, sorreggendo una bilancia che probabilmente sarebbe stata inserita a effetto, in modo da fuoriuscire dalla parte anteriore del piano. Alla sua destra una donna, altrettanto sorridente, solleva in alto la mano sinistra aperta; sotto di lei, nell'angolo in basso, un pesce; l’altra donna, il cui mantello nasconde il cuscino sul quale è seduta, tiene il capo poggiato sul palmo, in un gesto quasi di sconforto; in basso nel suo angolo, c'è una melagrana. Entrambe si appoggiano alle volute sul fondo, integrandosi nell’insieme dell’inquadratura molto meglio delle figure del Trono Ludovisi. Sempre a sinistra nel riquadro piccolo, un ragazzotto dai capelli corti, anch’egli nudo, suona la lira in posa alquanto rigida; sotto, un’altra melagrana. Dal lato opposto, una vecchina, dai capelli tagliati, in segno di lutto, sta seduta in terra con le ginocchia ripiegate verso il busto, come per proteggersi e piangere, reggendo in mano qualcosa (forse una trottola, o un astragalo) poco riconoscibile, per via del grave guasto; sotto di lei, nell'angolo inferiore, un altro pesce.
Tutto sommato, un tema iconografico abbastanza riconoscibile e praticato, non del tutto eccentrico, o esclusivamente unico, quindi, rintracciabile in qualche skyphos (σκύφος) di Pistoxenos. I forti dubbi che tuttavia s’addensano sul trono di Boston contribuiscono a rendere più vulnerabile alle osservazioni critiche anche il “gemello” di Palazzo Altemps?
Bottino di guerra
È possibile persino che il Trono Ludovisi sia stato trafugato, addirittura in epoca repubblicana, quale bottino di guerra, in seguito alla sconfitta di Annibale, verso la fine del III sec. a. C., per finire conservato nel tempio di Venere Erycina, insieme con la grande testa femminile detta “Acrolito Ludovisi”, di provenienza elima (ora entrambi al Museo Nazionale Romano), e poi riscoperti nella congerie di reperti ammassati negli Horti sallustiani (nel frattempo divenuti Villa Ludovisi), insieme con l’obelisco (oggi davanti a Trinità dei Monti) e il suo basamento di granito (invece nei giardinetti dell’Ara Coeli), provenendo dagli stessi paraggi dei due raffinati colossi del faraone Tolomeo II e della regina Arsinoe II (oggi al Museo gregoriano egizio).
Dea Ericyna
La forzata urbanizzazione della zona (con l’apertura delle odierne via Piemonte e via Abruzzi) ha ovviamente contribuito a confondere le tracce della scoperta, risalente al 1887.
Qualche anno più tardi, Eugen von Petersen (1836-1919), collaboratore di Pietro Paolo G. Orsi (1859-1935) a Locri, e giusto negli scavi del tempio ionico, avrebbe assimilato i due ritrovamenti (Acrolito e Trono), rinvenuti praticamente nella stessa zona, ritenendoli derivare da uno stesso santuario, ricordato dalle fonti storiche proprio in quella certa parte dell’urbe.
Attribuì ambedue, quello in forma di basamento e la grande testa tardo-arcaica, a una medesima struttura architettonica votata al culto di Afrodite Ericyna (Röm. Mitt., VII, 1892, p. 33 ss.), consistente quindi in una statua colossale e nell’ornatissimo e mastodontico zoccolo portante che, con consona imponenza, l’avrebbe dovuta sostenere.