Domenica, 16 Giugno 2024

                                                                            

C Cultura|Società

KALAVRIA E IL “FU” TEATRO GIOIOSA

Questo articolo contiene parole
Il tempo di lettura è di circa minuti.
Livello di difficoltà di lettura:

Il film documentario Kalavría si appresta a fare il suo primo tour in Calabria. Si comincia il 25 maggio da Praia a Mare, la bella cittadina in cui è cresciuta la regista Cristina Mantis (all’anagrafe Cristina Felicetti), per poi spostarsi a Castrovillari il 26 con parte del cast (qui già in programmazione dal 24 fino al 29 maggio), poi a Locri il 30.

La storia è quella di un naufrago/Ulisse (Ivan Franek) che vaga senza meta, ma non nel nulla. Sin da subito non c’è un angolo della terra che percorre che non abbia un senso. E gli angoli e i volti illuminati sono tanti e in molti casi davvero sorprendenti, all’interno di una narrazione orizzontale, verticale, trasversale, in cui il protagonista dialoga con le assenze e, dall’arcaico in cui si inoltra, prodigiosamente si materializza il mito e la sua stessa possibilità di salvezza.

Ma cosa accade in particolare nei luoghi succitati?

Nelle acque di Praia a Mare, si erge regale l’Isola Dino, mentre Ulisse cammina su magici scogli per poi varcare la soglia di una Torre Normanna, in cui si consuma l’incontro con Circe (Agnese Ricchi). Nei pressi di Castrovillari, a Civita, le case Kodra sembrano provare pietà per il naufrago, che esce indenne da uno scontro (forse con il suo stesso male?) sul Ponte del Diavolo, per poi raggiungere un’aquila molto speciale che abita dai Falconieri dei Setteventi. Nel teatro greco-romano di Locri Epizephiri, Pitagora/Domenico Pantano discute con il musicista greco Alexandros Hahalis, sotto lo sguardo di un divertito Ulisse, sostenendo che in area calabra la Grecia trovò popolazioni autoctone che erano avanti sui tempi, in molti campi, grazie ad un'apertura mentale che non aveva uguali. Dall’amalgama tra l’enorme bagaglio dei talenti del sud e quelli provenienti dai greci conquistatori nacquero le “grandi colonie greche” che furono fari di cultura e di usanze per il Mediterraneo prima, e ben presto per tutto il mondo conosciuto.

Ma cosa c’è della Locride ancora nel documentario? Il “fu” Teatro Gioiosa di Gioiosa Jonica. Come una lama tagliente in tanta poesia, e per questo fa ancora più male, le immagini mostrano la chiusura di questo teatro, diretto in modo pirandelliano dallo stesso Domenico Pantano, che si è fatto uno, nessuno e centomila, pur di portare il teatro dappertutto e facendo di questo luogo per oltre 30 anni il fulcro dell'attività culturale del Centro Teatrale Meridionale.

Inaugurato nell'anno 1990 dallo spettacolo “I mafiusi della Vicaria di Palermo” diretto da Andrea Camilleri, in cui Rosa Balistreri cantava in quel suo modo unico e appassionato testi di Otello Profazio, e lo stesso Pantano impersonava don Jachino, suo figlio, in un'interpretazione che all'epoca fece scalpore.

Un battesimo straordinario dunque per un luogo che sarebbe diventato negli anni punto di riferimento per 42 comuni della Locride e per il teatro nel sud d’Italia. Qui hanno fatto tappa nelle loro tournèe al sud le compagnie teatrali più importanti e gli attori più amati. Qui si sono costruiti con talento e fatica gli spettacoli prodotti dallo stesso CTM, diretti da registi apprezzati, spesso sperimentatori come Franco Molè, che portò in scena una superba versione di “Gente in Aspromonte” di Corrado Alvaro, in cui debuttava anche una giovane Cristina Mantis. Un altro testo messo in scena al teatro Gioiosa fu “La Rivoluzione di Frà Tommaso Campanella”, di Mario Moretti, nell’ottima interpretazione dello stesso Pantano, in cui un ottantenne Arnoldo Foà interpretava Papa Urbano VIII. Gli spettacoli spesso registravano il tutto esaurito, e fiumi di ragazzi venivano portati dagli insegnanti durante le matinèe così caparbiamente volute e gestite dal direttore artistico, con tanto infaticabile lavoro e tante notti insonni. E poi ancora prove su prove per la creazione di spettacoli come:  “Il berretto a sonagli” e “Liolà” di Luigi Pirandello, “Pluto” di Aristofane”, “Pitagora e la Magna Grecia” di Mario  Moretti”, “La Mandragola” di Machiavelli, “Cronaca” di Leopoldo Trieste, “Locri-Duisburg A/R” di Anna Carabetta, “Il procuratore di matrimoni” di Mario La Cava, “La Moscheta” di Ruzante, “La tragedia degli Alberti di Pentidattilo” di Luigi Sclapari, “Le tre monete” di Plauto”, “Molto rumore per nulla” di William Shakespeare, “Aspettando Antigone” di Claudio Zappalà, “Sette contro Tebe” di Eschilo,  e tantissime altre opere teatrali, nonché decine di produzioni dedicati agli studenti delle scuole di ogni ordine e  grado.

E quando sul più bello di una produzione teatrale, che da anni aveva varcato i confini regionali per percorrere le grandi piazze teatrali italiane, il CTM invece di ricevere per questo un riconoscimento, si vede chiudere il suo teatro di riferimento! Perché? Non c'è mai una ragione sufficiente perché un teatro debba chiudere, men che meno se ha nutrito i cuori e le menti di tanti giovani, in luoghi in cui non è scontato ricevere input culturali per la loro crescita. Chiudere il teatro, con la sedia ribelle in prima fila, è stata la scelta non contestata da uno stato che spesso qui non prende posizione... che lascia correre per il quieto sopravvivere. Le cose stanno così, senza che ormai ci si faccia più troppo caso, e allora la Mantis ce le ripropone, non a caso, dopo e in contrasto con la scena di Locri, non per darci colpe, ma per ricordarci che noi semi nobili fecondati da venti ribelli, dovremmo attentamente vigilare su quello che vorrebbero farci credere siamo diventati.

Dal buio si esce cercando la luce dentro di sé, questo suggerisce il racconto che si dipana visionario, ma anche intuitivo, realistico, a ben vedere, quando sottolinea di come tutto potrebbe andare meglio se l’umanità si facesse complice, invece di farsi la guerra. È un gioco d’incastri di significati smarriti che riaffiorano con schiettezza e fanno il paio con i fendenti dello scrittore Gioacchino Criaco, che ribadisce che noi siamo Oriente, e che quindi non è ad Occidente che dobbiamo guardare, perché ci appartiene il fare dei berberi “che si spezzano, ma non si piegano”.

Chi si aspetta un film ambientato nella Calabria conosciuta, rimarrà deluso. Non è nemmeno lontanamente roba omologata, buona per la più parte dei palinsesti televisivi. È un film/documentario d’autore, un viaggio dell’anima in cui è possibile immergersi ad ogni latitudine. Ed è un dono fatto alla Calabria e ai calabresi, che ci auguriamo la Calabria e i calabresi sappiano valorizzare.


 

Ultimi Post

Le idee espresse dagli opinionisti non necessariamente debbono coincidere con quelle del direttore e dell’editore di Calabriapost.net 

..........................

 Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete  a direttore@calabriapost.net

 

top